XXVIII.

L’età neoclassica e Vincenzo Monti

1. Il neoclassicismo nell’età napoleonica

Abbiamo già visto (nel capitolo 24; cfr. particolarmente i paragrafi I e VIII) come nella seconda metà del Settecento si svolgessero, accanto alle componenti culturali illuministiche e preromantiche, gli elementi del gusto neoclassico, di una ripresa attiva dei classici, cioè, in un orizzonte di modernità e di attualità, di aspirazione all’antica perfezione morale e all’antica finitezza estetica. Non disgiunti da un affiorare, e perfino da un prevalere, delle componenti della sensibilità preromantica, tali elementi s’espandono fino agli estremi limiti del secolo e subito dopo li troviamo pronti ad improntare di sé, largamente, il primo decennio almeno dell’Ottocento. È caratteristico come nella storia del Monti, che di quest’età occupa il posto preminente quale indice del gusto e delle tendenze poetiche che solo col Foscolo giungono alla vera poesia, gli elementi illuministici e preromantici, specie nella giovinezza, nel tempo della formazione e fino alla prima maturità, si mischino con quelli neoclassici, che poi finirono decisamente col prevalere.

Che sulla formazione del gusto neoclassico molto influissero figure come il Winckelmann s’è già segnalato, aggiungendo però che ciò accadeva non disgiuntamente dallo sviluppo di certe tendenze preromantiche come quelle delle rovine. Ora va detto che proprio il gusto neoclassico diviene la dimensione tipica del tempo napoleonico, prima nel periodo repubblicano francese, per via dell’esaltazione degli ideali classici repubblicani greci e romani, poi per l’adesione di quel gusto alle necessità del fasto imperiale. Tale tendenza impresse direzioni particolari un po’ a tutte le usanze sociali, e l’architettura di primo Ottocento si segnala per vistosi ritorni a strutture classiche (colonnati, trabeazioni, scalinate, esigenze di simmetria e di proporzione), come anche la pittura e la scultura. Per la pittura basterà ricordare la fortuna di cui godette il francese Fabre, che a lungo operò in Italia; per la scultura la figura di Antonio Canova, ideale di gusto per uomini come Giordani, ma notevole soprattutto perché capace di accendere per certe sue opere l’entusiasmo del Foscolo, che gli dedicherà le Grazie. Anche l’arredamento delle abitazioni, perfino la moda femminile risentirono fortemente di questa tendenza del gusto (e nel tempo imperiale i labari, le aquile si sprecarono come simboli della nuova autorità, chiaramente ispirandosi ai tempi romani), che non fu solo italiana, né solo francese, ma largamente europea.

Sulla determinazione del gusto neoclassico nella letteratura influiva poi il Parini, soprattutto, come s’è visto, quello dell’ultima stagione. Pur mantenendo nel complesso quegli aspetti che le tendenze classicistiche già vive nel Settecento avevano manifestato, la poetica neoclassica del primo Ottocento si viene svolgendo verso risultati in parte diversi, soprattutto e prima di tutto perché variamente connessi con la sensibilità preromantica. Gli aspetti salienti della poetica neoclassica sono cosí, da una parte, un gusto dell’ordine razionale, delle proporzioni, della divina armonia, ma insieme un vago sentimento della fine di tutto ciò cui si aspira. Nello sforzo di raggiungere la piena espressione del suo gusto l’artista neoclassico è pronto alle punte piú estreme, al grandioso, allo spettacolare, alla soddisfazione del desiderio di suscitare meraviglia. Allora anche le suggestioni del gusto pompeiano, delle rovine, influiscono sulle delineazioni del paesaggio in una complessa contaminazione di aspirazione al bucolico classico e viceversa al primitivo preromantico. D’altronde nelle scelte linguistiche la fertilità di suggerimenti, di aperture provenienti dal Settecento, si compromette con la tendenza al ritorno ai classici del Trecento, con diversi risultati, vedremo, tra ambiente strettamente puristico e ambiente montiano. Ma è proprio in questo tempo che si diffonde nella cultura italiana, anche in ragione della diversa circolazione di cultura che le vicende della rivoluzione e dell’età napoleonica determinano, l’alta voce del Vico, che sarà maestro di pensiero storico e filosofico a tutto il piú serio Romanticismo.

2. Vincenzo Monti e il suo tempo

Di questa epoca cosí ricca di vicende storiche grandiose e drammatiche (lungo arco che va dal riformismo illuministico settecentesco alla rivoluzione francese e al suo ingresso in Italia, alla costituzione di repubbliche italiane prese fra aspirazioni di indipendenza, e persino di unità della penisola, e inevitabile subordinazione alla politica francese, alla dittatura napoleonica e al suo crollo, alla restaurazione dei vecchi regimi e al predominio austriaco) l’opera poetica di Vincenzo Monti riflette e traduce letterariamente le tendenze e i caratteri piú vistosi, cosí come quella del Foscolo, vero e grande poeta, ne interpreta, in maniera tanto piú originale e profonda, i motivi di fondo, i grandi problemi storici, politici, culturali, estetici. Per dirla in breve il Foscolo fu la coscienza critica, drammatica e cosí veramente poetica del suo tempo, mentre il Monti fu di questo l’interprete piú vistoso, superficiale, immediato, sí che a lungo poté apparire ai contemporanei come la voce piú alta, e quasi l’immagine stessa della poesia insieme accordata alle vicende storiche e alle tendenze dominanti del gusto e insieme sempre dotata di un suo splendente e sonante timbro «apollineo», capace di trasformare in immagini splendide e colorite fatti e personaggi di quel tempo cosí tumultuosamente mobile e tramutante. Finché il piú grande poeta della generazione successiva, il Leopardi, dopo di aver subito nella prima gioventú il fascino montiano, poté recisamente (e persino eccessivamente) opporsi a quel fascino affermando che il Monti era un poeta «dell’orecchio e dell’immaginazione», non del «sentimento» e che la sua poesia non aveva mai la forza stimolante e vivificante della vera poesia moderna. E tuttavia – superata da tempo l’illusione dei contemporanei e i tentativi anche piú recenti di recuperare nel Monti una qualità di autentica grande poesia – sarebbe ingiusto demolire totalmente l’importanza del Monti nella nostra storia letteraria, distruggerne senz’altro la presenza culturale e letteraria nel passaggio fra Settecento e Ottocento e negare a lui disposizioni poetiche, anche se incapaci, per mancanza di una sostanza umana profonda, di realizzarsi in vera e grande poesia. E perciò, piú che ad un nucleo personale potente, capace di svilupparsi e di svolgersi densamente (come vedremo in un Foscolo), occorrerà recuperare nella sua carriera poetica i modi con cui certe sue disposizioni poetiche naturali s’aprono e s’accendono al contatto con i fatti storici, con le tendenze del gusto contemporaneo, con le tendenze della cultura, di cui indubbiamente – nei suoi modi piú vistosi che profondi – egli fu abilissimo ed efficace assimilatore e mediatore ad un vasto pubblico di lettori e ai letterati che da lui appresero indubbiamente tante lezioni di stile, di lingua, di immagine e di suono, di metrica e di espressione che superano ormai il vero ambito del Settecento e si aprono alla poesia ottocentesca.

3. La vicenda umana di Vincenzo Monti

Come la sua poesia, la sua vita non ha passioni profonde e iniziative possenti, tesa com’è semmai da una decisa volontà di affermazione personale e da una sapiente (anche se non sempre riuscita) amministrazione del proprio ingegno poetico per trovarsi sempre al punto giusto in una situazione, e non essere mai scavalcato e isolato dagli avvenimenti e dalle forze vittoriose dei vari potenti (in antitesi netta con l’immagine alfieriana del letterato che non è «visto mai de’ dominanti a lato»). Ciò che non esclude una vita di sentimenti anche generosi, come non esclude un piú ingenuo entusiasmo per i vincitori e i protagonisti felici della storia, per le vicende esaltanti e capaci di commuoverlo insieme alla piú vasta opinione pubblica; entusiasmo che ben corrisponde al suo ingegno versatile e facile, piú disposto ad aderire ai moti positivi della storia che a rifiutarli e a combatterli in una posizione di minoranza e di persuasa solitudine.

Nato il 19 febbraio 1754 alle Alfonsine, nelle vicinanze di Ravenna, da una famiglia di agiati possidenti agricoli in via di consolidamento e affermazione economica, il Monti, dopo un’educazione classicistica tradizionale nel seminario di Faenza, si accinse presto a sviluppare insieme le sue doti letterarie e la sua impresa di affermazione personale, prima utilizzando le relative offerte di Ferrara (dove studiò prima medicina e poi legge e soprattutto si introdusse nell’ambiente letterario aristocratico, presto affermandovisi con la sua conversazione brillante e la foga e varietà della sua poesia), poi nel 1774 passando a Roma, capitale dello Stato pontificio e del mondo cattolico e insieme centro cosmopolitico dell’arte neoclassica e di una politica culturale fastosa, particolarmente appoggiata a papa Pio VI, dove la sua personalità vivacissima, abile, conformista, riuscí abbastanza presto ad imporsi (malgrado invidie e rivalità maligne e invincibili) di fronte ad una stanca letteratura di eredità arcadica e a divenire insieme il segretario del nepote del papa, il duca Luigi Braschi, e il poeta riconosciuto della corte papale (di cui assecondava con i suoi componimenti poetici le tendenze di mecenatismo, di moderato e piuttosto illusorio riformismo, di restaurazione dell’antico splendore classico nel neoclassicismo dell’edilizia, delle ricerche archeologiche, dei nuovi musei), mentre nel matrimonio con la bellissima Teresa Pikler (figlia di un famoso orafo neoclassico) egli si assicurava una soddisfatta vita sentimentale e una compagna ben adatta al suo prestigio nella vita sociale romana.

Né i riflessi della rivoluzione francese e delle prime guerre fra rivoluzionari francesi e lega dei principi conservatori mancarono di fornire nuovi elementi al suo estro entusiastico e alla sua personale politica di portavoce poetico della reazione italiana ed europea, se proprio con la Bassvilliana, facendosi difensore poetico del trono e dell’altare con un apparente rinnovamento della grande poesia dantesca, egli ottenne il suo primo e maggiore successo di «grande poeta». E se la storia smentí i suoi profetici annunci della sconfitta rivoluzionaria e le armate francesi sotto la guida di Napoleone dilagarono in Italia e giunsero nella stessa Roma, il Monti ben presto si riprese dallo squilibrio causato da questo diverso svolgersi degli avvenimenti, si avvicinò agli ufficiali francesi in Roma, si sentí a poco a poco persuaso delle nuove idealità di libertà repubblicana e un nuovo entusiasmo per i vincitori e per la grandiosa figura del giovane condottiero, Napoleone, venne a creare in lui una nuova disponibilità della sua poesia. Improvvisamente fuggí da Roma nel 1797 e si recò nella Repubblica Cisalpina, divenendo persino collaboratore politico-amministrativo del nuovo ordine come commissario in Romagna e insieme volgendo la sua poesia sia a difendersi della grave pecca della reazionaria Bassvilliana, sia ad attaccare duramente il clericalismo e la superstizione e ad esaltare il nuovo eroe repubblicano in vari poemetti che poi ricorderemo o in cantate che giungevano sin ad esaltare il «tirannicidio» di quel Luigi XVI che aveva esecrato con tanta eloquenza poetica nella Bassvilliana.

E se il suo cambiamento di idee non mancò di creargli grosse difficoltà nella Repubblica Cisalpina e poi l’invasione dell’Italia da parte degli austro-russi lo costrinse ad un esilio inizialmente difficile in Francia, con la vittoria di Marengo e il definitivo passaggio dell’Italia a Napoleone il Monti consolidò stabilmente la sua posizione sia nella Repubblica italiana (assecondando nella sua Mascheroniana gli elementi di dissenso indipendentistico e antidemagogico di larghi strati di patrioti italiani, ma sempre esaltando Napoleone) sia nel successivo regno italico (1808), quando egli divenne storiografo ufficiale e poeta cesareo di Napoleone re d’Italia e nella Milano di quegli anni visse un periodo sontuoso, tranquillo, fecondo di macchinose opere encomiastiche, ma anche di poesia di gusto puro ed elegantissimo e del capolavoro che è la traduzione dell’Iliade.

Quando sopraggiunsero il crollo napoleonico e la caduta del regno italico (1814), la parte piú felice della vita del Monti fu conclusa. Ormai vecchio e deluso, egli poté sí trovare nuovo accordo con il nuovo dominio austriaco a cui non negò alcuni stanchi e impersuasi componimenti encomiastici, ma la sua vita ufficiale e fastosa era finita: le malattie, la morte dell’amato genero, Giulio Perticari, le cattive maldicenze sulla vedova di questo, la figlia Costanza, portarono il Monti come ad un ripiegamento, al solito non profondo e pur effettivo, come in una maggiore solitudine, in un piú stretto cerchio di affetti di amici e allievi, in una crescente amarezza di cui si alimentò, come vedremo, l’ultima fase della sua poesia e da cui pur si riscattava nell’opera vigorosa e spesso vigorosamente polemica della Proposta, l’opera con la quale egli prendeva posizione sulla questione della lingua molto piú energicamente e validamente di quanto tardivamente facesse nella polemica classico-romantica. La morte lo colse nel 1828.

4. La formazione e il periodo ferrarese e romano del Monti

Dopo gli anni dell’adolescenza passati nel seminario di Faenza e segnati da un’educazione antiquata, retorica, gesuitica, fondata soprattutto su composizioni in latino e su esercitazioni poetiche modellate sul fare celebrativo e grandioso del Frugoni (prima educazione ad una concezione della poesia come veste eloquente di contenuti occasionali, non intimamente necessari), il Monti, come dicevamo, visse fra il ’71 e il ’78 a Ferrara, preferendo agli studi, prima di legge e poi di medicina, svogliatamente seguiti, un’attività poetica che, appoggiandosi agli esempi piú recenti della poesia settecentesca (al centro quelli del fare visionario e grandioso dei ferraresi Varano e Minzoni, ma non senza attenzione ai poeti galanti ed erotici del rococò classicistico come il Savioli), si disponeva ad un esercizio eclettico di componimenti che variamente rispondevano all’ansia del giovane letterato di affermarsi nei vari generi poetici e alle esigenze di quell’ambiente dominato dalla presenza di salotti letterari e di dame e cavalieri piú alla moda, con i loro caratteri di galanteria e di eloquenza e della piccola corte del legato pontificio con le sue istanze di religiosità ufficiale. Ed ecco cosí fin da ora alternarsi nell’esercizio montiano canzonette e poesie galanti, sonetti di tipo eroico, visioni religiose ed encomiastiche, come la Visione di Ezechiello del ’76, che continuavano abilmente la celebrazione di personaggi potenti del mondo clericale e pontificio e lo sviluppo di quelle disposizioni di entusiasmo visionario in cui ad echi di Dante e della Bibbia si associavano quelli dei ricordati Minzoni e soprattutto Varano e già qualche eco della poesia europea del «sublime» (Klopstock e Milton), che il Monti veniva orecchiando nella sua prevalente tendenza allo scenografico, al grandioso, al meraviglioso.

Tendenza che trovò poi un appoggio e una sollecitazione nella stessa magnificenza di quella Roma in cui il Monti trovò onori e sistemazione, ma anche ambiente propizio (dalla sontuosità della città, fra grandiose rovine antiche e fasto dell’edilizia barocca e rococò, alla vita sfarzosa della corte del vanitoso e ambizioso Pio VI) alla sua piú forte disposizione ad una poesia decorativa, colorita, scenografica, tesa ai grandi effetti, ai colpi d’occhio grandiosi, agli affreschi spettacolari e movimentati. Della grandiosità romana, delle velleità della corte papale a rinnovare la magnificenza antica nel nuovo gusto neoclassico, il Monti si fece infatti facilmente interprete e voce poetica nella celebre ode La prosopopea di Pericle, del ’79, che dalla recentissima riscoperta di una statua antica rappresentante il celebre uomo politico e mecenate greco traeva spunto ad esaltare quella lontana civiltà magnifica e perfetta e il suo sperato rinnovamento nella Roma di Pio VI. Costruendo la propria immaginosità spettacolare entro le forme e i ritmi brevi ed elastici di un’ode-canzonetta neoclassica e in un piú nitido disegno ispirato alle condizioni piú tipiche del gusto neoclassico, il Monti portava però colori, toni, movimenti piú impetuosi, focosi, nuovi per certi tocchi piú realistici e moderni. Seppure con una maggiore libertà ed esuberanza immaginosa e scenografica, la stessa grandiosità spettacolare si trova nella piú attraente composizione in terzine, La bellezza dell’universo, scritta nel 1781 per celebrare le nozze (come si vede e si vedrà, il Monti scrive per occasioni che colpiscono la sua immaginazione ed eccitano il suo entusiasmo – non senza coinvolgere il suo interesse di poeta cortigiano e protetto) del nepote del papa, Luigi Braschi (di cui divenne segretario) con Costanza Falconieri: portentosa prova della sua abilità di grande virtuoso della parola e dell’immagine e dei suoi effetti visivi e fonici, della sua foga inventiva di scene e movimenti contrapposti, con forti effetti spettacolari, fra il tenebroso e il luminoso, fra il pauroso e l’estatico, fra l’energico e il delicato, della sua capacità di entusiasmarsi e di fare entusiasmare, di «vedere» e di «far vedere», con la sua efficacia rappresentativa e la ricchezza dei toni e delle sfumature, con la prestigiosa utilizzazione di temi, versi, modi della grande poesia del passato, incentivo potente del fascino della sua poesia riportante in forme moderne e insolite echi della grande tradizione poetica italiana, classica e straniera in una singolare epitome di suggestive consonanze di quella grande eredità. Con quei componimenti il Monti affermava la sua eccezionale bravura (anche se priva di piú sostanziosi nuclei densi e personali) e sullo slancio del loro successo (di cui la personalità montiana era particolarmente bisognosa come quella di chi vibra e si espande non in contrasto, ma in sintonia con il consenso e l’entusiasmo del pubblico) egli poteva arricchire ed estendere le possibilità della sua eclettica disponibilità poetica in un’eccezionale gamma di componimenti, mai privi di rapporto con occasioni del tempo, con fruttuose prestazioni del poeta encomiastico, con tendenze affioranti nel gusto e nella cultura della propria epoca e del proprio ambiente e dal Monti evidenziate e mediate nella sua prestigiosa abilità immaginosa, nella sua voce pastosa e orecchiabile, nella sua visività scenografica, nella sua capacità di smussare e rendere piú accettabili le punte piú ardue e impegnative di ogni nuova tendenza sentimentale, culturale, letteraria.

Da una parte cosí egli riprende e fa sue le tendenze della sentimentalità preromantica (e specie di quella lanciata dal celebre Werther goethiano), ricavandone negli Sciolti al Chigi e, ancor piú efficacemente, nei Pensieri d’amore (1783) un’onda patetica e melodiosa, un lirismo meditabondo e malinconico di indubbia suggestione e indubbiamente capace di far valida presa sulla immaginazione dei lettori (e anche di grandi lettori fino al Leopardi) proprio per la sua singolare attitudine a ripresentare i temi piú tipici del sentimentalismo preromantico (i temi della notte silenziosa, della rimembranza dolce e acerba, degli affetti teneri ed eletti dell’amore, della meditazione elegiaca sulla sorte caduca degli uomini e del cosmo) con una maggiore evidenza visiva e musicale, con una piú morbida fusione di linguaggio e di immagine, accordata con i modi della tradizione poetica italiana e insieme toccata da un certo realismo psicologico che sembra già anticipare tipici modi della poesia ottocentesca romantica; cosí come un certo realismo di particolari in scene di folla popolare può apparire persino in un poemetto tutto cortigiano ed esteriore quale è quel Pellegrino apostolico in cui il Monti salutava e prefigurava, in modo molto diverso da quello che fu la sua amara realtà, il viaggio che Pio VI fece a Vienna nel 1782 per tentare, invano, di indurre l’imperatore Giuseppe II a recedere dalla sua politica ecclesiastica di indipendenza dal papato e di riduzione del potere degli ordini religiosi.

D’altra parte un’attrazione degli elementi illuministici circolanti anche nell’ambiente romano trova espressione – sulla spinta di un entusiasmo sincero suscitato dall’onda di generale entusiasmo che percorse l’Europa di fronte ai primi voli dei palloni aerostatici – nell’Ode al signore di Montgolfier (1784), che esaltava nella meravigliosa impresa dei nuovi argonauti i progressi della «placida filosofia sicura» fino al piú banale finale in cui il poeta iperbolicamente vede gli uomini giungere a «infrangere anche alla morte il telo» e a «libare il nettare» con Giove in cielo, ma certo con uno slancio fresco e rapito di ritmo e con una capacità di visione nitida e favolosa illuminata da uno stupore mitico e poetico molto efficace (la visione della terra che si allontana allo sguardo dei navigatori aerei o quella stessa della folla che tace attonita e ammira l’innalzarsi del pallone) ben accordato e fuso con il gusto di rievocare gli antichi miti poetici nella loro aura di perfezione e di leggenda.

Con queste varie opere il Monti dava espressione sia alle nuove tendenze preromantiche, sia ad elementi della fiducia illuministica nel progresso, sia all’amore neoclassico per miti moderni rinnovatori di quelli antichi.

Né mancò in questo periodo cosí fervido di esperienze persino la prova dell’attività tragica, con cui il Monti intendeva gareggiare con l’Alfieri e superarlo (come parve a molti contemporanei) mediante una rappresentazione piú complessa e varia, e soprattutto mediante un linguaggio meno rigido, piú morbido e pastoso, recuperando certo gusto melodrammatico metastasiano e cosí offrendo ancora una volta – anche in un campo tanto piú chiuso all’animo cosí poco drammatico del Monti – non certo robuste costruzioni tragiche (sia l’Aristodemo di argomento classico, sia il Galeotto Manfredi di argomento rinascimentale), ma sapienti ed efficaci compromessi fra gusto classico e gusto moderno e moduli (specie nella seconda tragedia) di linguaggio sentimentale e psicologico ben calcolato e fuso, elegante e pur facile e popolare, che fanno pensare a modi delle romanze e novelle poetiche del romanticismo.

A questo punto il Monti sembra diviso fra la sua forte tendenza a farsi poeta di avvenimenti contemporanei (còlti addirittura nella loro maggiore immediatezza) e la tendenza, pur ben viva in lui, di evadere dalla realtà rifugiandosi nel mondo dei bei miti antichi, nel piacere squisito di rievocarli e di esprimere la sua passione per la bella letteratura del passato greco-latino e italiano, e sembra avviarsi piú decisamente su questa seconda strada, prima con la gentile e armoniosa Epistola alla marchesa Malaspina del 1788 che accompagnava una preziosa edizione dell’Aminta del Tasso del grande tipografo neoclassico, il Bodoni, e rievocava, in un discorso poetico piú misurato e sommesso, sia l’esilio di Dante (ospite dei Malaspina) sia la figura e l’opera del Tasso, poi con l’incompiuto poemetto, la Musogonia, scritto fra ’92-93 e inteso a illustrare la storia delle Muse in Grecia e in Italia con un gusto di neoclassicismo elegante e un po’ illeggiadrito e con una specie di piacevole degustazione dei bei miti antichi, specie nel loro aspetto piú idillico e nel loro tono di grazia piú che di solennità maestosa.

Ma proprio mentre attendeva al secondo canto di questo poemetto il Monti fu investito prepotentemente dall’onda di diffusa passione antifrancese e antirivoluzionaria che, accumulatasi particolarmente nella Roma conservatrice e cattolica durante le vicende del Terrore, dell’esecuzione di Luigi XVI, dei primi tentativi di invasione dell’Italia da parte delle armate della rivoluzione, era stata alimentata da un fatto di cronaca: l’uccisione a furor di popolo, il 12 gennaio 1793, di un emissario francese a Roma, Hugou de Bassville. Il Monti afferrò prontamente quell’occasione e in poco tempo stese i quattro canti della Bassvilliana, o In morte di Ugo Bassville, che in terzine dantesche e in forma di visione spettacolare e grandiosa, piena di personificazioni e personaggi ora storici ora simbolici, miravano a rappresentare (attraverso il volo dell’anima del Bassville, condotta da un angelo a contemplare i misfatti della rivoluzione e a ricavarne un pio pentimento redentore della sua collaborazione a quell’opera scellerata) le grandi e orride scene del regicidio, delle guerre di invasione, del demoniaco sfrenarsi di passioni malvage nella Parigi rivoluzionaria e irreligiosa, sovvertitrice dell’ordine mondano e celeste.

Ne nacque un’opera turgida e a forti colori, costruita con vistosi espedienti macchinosi e retorici, ma certo tutt’altro che priva di una sua esuberante vitalità rappresentativa-narrativa che in mezzo a parti troppo prolisse e sforzate trova il suo risultato piú intenso nella narrazione dei preparativi, nel canto secondo, dell’esecuzione del re, nella creazione in quella di un’atmosfera cupa e suggestiva, di una scena movimentata e incalzante di grande efficacia, tale che poté apparire anche ai romantici (cosí lontani per tante altre ragioni dal Monti) un esempio di vera poesia moderna, nata comunque da una partecipazione del poeta ad una commozione contemporanea e realmente sentita da una larga massa di contemporanei: mentre i letterati del tempo ritrovavano in quella poesia visionaria e in quel linguaggio violentemente immaginoso addirittura la presenza di un Dante ammodernato e rinnovato.

Ma intanto le sorti delle armi volgevano a favore dei francesi e l’entusiasmo montiano si raffreddava, la cantica veniva interrotta, il Monti diveniva incerto e perplesso di fronte alla nuova piega degli avvenimenti e nel suo animo di entusiasta, non di persuaso, si faceva a poco a poco strada (anche sulla base di sue precedenti vaghe idee di origine illuministica e di fede nel progresso della ragione) un nuovo e contrario entusiasmo per gli aspetti positivi della rivoluzione che portava in Italia ideali e leggi piú giuste e che alla luce dei fatti si dimostrava dotata di una forza ben maggiore di quella della coalizione reazionaria, mentre la superstizione della plebe romana sanfedista e la politica meschina della corte papale gli si rivelavano nella loro realtà di fanatismo e di arretratezza incivile e il nuovo contatto personale con gli ufficiali francesi venuti a Roma lo convinceva della superiorità delle idee da loro portate e del bene che poteva venirne all’Italia, da lui certamente, anche se in forme piuttosto ingenue e poco precise, amata nell’onda di un crescente sentimento nazionale alimentato anche dalla tradizione retorica e letteraria delle antiche grandezze italiane e romane.

5. Il Monti repubblicano e napoleonico

Sicché – in un intreccio singolare di opportunismo istintivo e di adesione sincera alle nuove idee – il Monti a un certo punto ruppe ogni incertezza, abbandonò Roma, passò nella Repubblica Cisalpina e dispose la sua lira – dopo lungo silenzio – a riparare gli «errori» della Bassvilliana, ad esaltare, in due poemetti ancora assai stentati (Il pericolo e La superstizione), le idee laiche, repubblicane ed egualitarie, per poi slanciarsi piú liberamente e con piú fresco entusiasmo nel celere canto innografico di vari componimenti «repubblicani», fra ’97 e ’98, scritti per occasioni e cerimonie della Repubblica Cisalpina (assai vivi e interessanti per la loro qualità di impeto e di rapido gusto realistico), e nella costruzione ambiziosa di un poema (anch’esso incompiuto come la maggior parte delle opere piú impegnative del Monti, incapace di robusta organicità e piú facile all’intrapresa entusiastica di un poema che al suo intero completamento, bisognoso di piú salda e profonda ispirazione persuasa), il Prometeo, che voleva fondere grandiosamente l’amore montiano per i miti classici, il suo tentativo di permearli di un significato simbolico storico e attuale, il suo invincibile bisogno encomiastico (Prometeo miticamente liberatore degli uomini dalla tirannia di Giove e promotore di civiltà diveniva simbolo del progresso del libero spirito umano e della sua vittoria sulla superstizione e sui pregiudizi religiosi e politici, insieme incarnandosi nel giovane eroe Bonaparte liberatore dell’umanità e dell’Italia) con una poesia neoclassica impegnativa e creatrice di grandi miti simbolici storici e moderni. Ma il Monti era ben diverso dal Foscolo o da altri grandi poeti stranieri del tempo neoclassico-romantico, creatori di miti poetici consistenti e profondi, e, come tante volte avviene nella sua poesia, passi piú energici e suggestivi, impeti immaginosi affascinanti rimangono incapaci di sviluppo piú intero e sembrano piú promettere che realizzare una vera e consistente poesia.

E cosí, mentre le sue idee assecondavano (non senza l’efficacia storica già notata in generale) il mutare delle idee del suo tempo e dell’ambiente italiano della Cisalpina, dal piú deciso spirito repubblicano rivoluzionario a forti dissensi con i protettori francesi e i loro dipendenti italiani in nome di un certo indipendentismo crescente, di un’antidemagogia e di un gusto moderato dell’ordine (cosí del resto congeniale al Monti), per poi giungere alla sicura adesione al regime personale napoleonico, le migliori qualità e disposizioni poetiche del Monti non si concretavano tanto nelle sue nuove opere originali quanto nel suo singolare tradurre poetico.

Non che si possa negare una notevole efficacia alla terza e migliore delle sue tragedie (il Caio Gracco, scritta durante l’esilio francese e notevole, oltreché per la mediazione di motivi repubblicani, antidemagogici e antiestremistici comuni, come dicevo, a molti repubblicani italiani di quegli anni, per maggior forza costruttiva e spettacolare) o all’impeto brillante del fresco e fervido entusiasmo dell’ode Per la liberazione dell’Italia (dopo la vittoria di Marengo), cosí affascinante nella sua commozione gioiosa e nello stupore per l’impresa meravigliosa del passaggio delle Alpi da parte dell’armata napoleonica e per la morte eroica del Desaix. Né potrà disconoscersi l’importanza di collaborazione alla diffusione di idee indipendentistiche e nazionali e l’efficacia di certa raffinata e sottile maestria descrittiva dei due canti della Mascheroniana (scritta in onore del celebre scienziato-letterato Lorenzo Mascheroni, ma anche del Parini e di altri grandi italiani preparatori di una vita nazionale italiana, libera, saggia, equilibrata, aliena dalla dura dipendenza dalla Francia, nemica degli eccessi demagogici). E nella vasta produzione del poeta cesareo napoleonico, se piú forzati e macchinosi appariranno certi poemi encomiastici ed epico-visionari come il Beneficio, La spada di Federico II, il piú impegnativo Bardo della selva nera (descrizione, a volte efficace, delle gloriose campagne napoleoniche fino alla vittoria di Ulma), ben diversamente interessano certe odi, pure encomiastiche, ma piú sobrie e nitide, come soprattutto quella del 1807 In occasione del parto della viceregina d’Italia, che portano nell’eclettica maniera della poesia montiana una nuova prevalenza del disegno e dell’eleganza neoclassica sul turgore del suono e sull’esuberanza del colore piú tipici della sua poesia visionaria ed epica.

6. Il Monti traduttore

Ma certamente le disposizioni poetiche montiane trovano la loro realizzazione piú sicura e continua nelle opere di traduzione, cui il Monti si dedicò nel periodo repubblicano e imperiale.

Si tratta non tanto della traduzione pur efficace delle Satire di Persio quanto di quella della Pucelle d’Orléans del Voltaire e soprattutto dell’Iliade di Omero. Nella versione della Pucelle (scritta nel periodo dell’esilio francese) il Monti dispiegò una ricchezza e vivacità di spirito comico che (presente anche in alcune delle sue lettere e poi in certe parti della Proposta) costituisce un’altra delle sue disposizioni poetiche non applicata nelle sue opere poetiche originali, ma cosí evidente e forte in questa versione del poema satirico, libertino e irreligioso che Voltaire aveva dedicato ad una trasfigurazione satirica della figura e vicenda di Giovanna d’Arco, da fare della versione quasi un’opera nuova e originale, animata da un estro irresistibile e confortata da un’abilissima ripresa e mescolanza della tradizione dei poemi eroicomici italiani. Sicché la sua lettura è tuttora di un effetto sicuro e deve essere valutata fra le offerte piú vive di questo scrittore anche ad un lettore moderno.

Quanto alla traduzione omerica (con cui il Monti si impegnava in un’ardua gara con i numerosi precedenti traduttori dell’Iliade e in un’impresa particolarmente cara all’epoca neoclassica: rendere italiano il capolavoro del classicismo antico), essa è indubbiamente un’alta ed elaborata prova (il Monti vi lavorò per lunghi anni completandola nel 1811) delle disposizioni poetiche del Monti che, mancando di un profondo mondo interiore, trovò nel grande e organico mondo poetico omerico un appoggio possente a quelle sue disposizioni e tensioni. Mediante la loro applicazione ai grandi motivi omerici e l’entusiasmo di dare espressione italiana e moderna a quella suprema poesia, riuscí a creare un’opera di grande efficacia e novità.

Certo l’Iliade montiana è pur lontana dalla sublime semplicità del testo originale greco (che fra l’altro il Monti avvicinò, per la sua relativa conoscenza della lingua greca, piuttosto attraverso le precedenti traduzioni, fino a provocare la battuta satirica foscoliana del «traduttor dei traduttor d’Omero»!), ma ciò che conta in questa versione-rifacimento è la intonazione generale unitaria e varia con cui il Monti rielaborò i temi e i motivi del poema omerico, mediandolo alla sensibilità e al gusto neoclassico moderno con una generale forma di maggior movimento, di evidenziamento piú immaginoso, di sviluppo del testo omerico in una superba onda di piú opulenta e pur elegante visività e musicalità che sorregge e fonde – sempre come in una maggiore spettacolarità – lo sviluppo dei temi omerici nella direzione delle sue disposizioni poetiche al sublime, al grandioso, ma anche al sentimentale e al patetico, all’elegiaco, al comico, allo stupore della visione cosmica, servendosi, con estrema e consumata abilità, anche di infiniti echi adiuvanti della tradizione poetica italiana.

7. L’ultimo Monti

Dopo la caduta dell’impero napoleonico e del regno italico il Monti sembrò aver esaurito la sua vena di poeta dell’entusiasmo per le occasioni storiche e certo ben poco valore hanno i rari componimenti occasionali-encomiastici che egli compose svogliatamente per i nuovi dominatori, gli austriaci (tre cantate drammatiche in occasione dell’arrivo del viceré austriaco di Milano o di visite a Milano dell’imperatore d’Austria: Il mistico omaggio, Il ritorno di Astrea, L’invito a Pallade). Egli, deluso e stanco delle vicende politiche e storiche, viveva ormai solo nel cerchio di affetti privati e familiari e in quell’amore per la bella letteratura e per la lingua italiana che era stato elemento fondamentale di tutta la sua esperienza di letterato.

Ed è in queste direzioni che la sua attività di scrittore trovò ancora espressioni singolari e notevoli e possibilità di opere variamente efficaci (la Proposta e il Sermone sulla mitologia) di polemica letteraria e linguistica.

Cosí nel campo della poesia a un indubbio allentarsi delle sue qualità di entusiasmo e fervore immaginoso corrisponde però un tono piú sobrio e sommesso, piú gentile e pacato, non privo di una mestizia sottile, che non è tanto prova di una vera trasformazione e di un raccoglimento intimo persuaso e profondo, quanto di un atteggiamento psicologico piú senile e piú stanco e pur tutt’altro che incapace di colpirci con una voce piú suadente e delicata, piú affettuosa e fine, in cui par riflettersi una piú sicura adesione alle qualità di misura e di casta eleganza del neoclassicismo e una maggior lontananza dalle sue forme piú grandiose e monumentali, spettacolari. Si pensi soprattutto (oltre al delicato poemetto-idillio, Le nozze di Cadmo e Ermione, per le nozze della figlia dell’amico Trivulzio) fra queste poesie piú private alla tarda canzone, del ’26, per l’Onomastico della mia donna.

L’espressione trepida e delicata dell’affetto per la donna amata, preoccupata per la malattia del marito, vi si intreccia con una malinconica rappresentazione della vita – «in cui / cosí corta la gioia e cosí lunghe / vivon le pene» –, con un sentimento pacato dell’altezza della propria opera di poeta, con il conforto delle rare, ma sicure amicizie e tutti i motivi si sciolgono in un discorso poetico delicato e pausato, sobriamente tenero ed elegiaco, che tanto si allontana dai pericoli, tanto frequenti nella poesia montiana, di declamazione sonante e immaginosità spettacolare, fin quasi ai limiti di una discorsività scarna e rarefatta.

D’altra parte, come dicevo, il Monti dell’ultimo periodo si volse a difendere il suo amore dei bei miti classici e della lingua italiana. Lo fece assai stancamente nel Sermone sulla mitologia del ’25 in cui, senza grande originalità di motivi, attaccava piuttosto tardivamente la nuova «audace scuola boreal», cioè la scuola romantica, vista da lui come straniera alla tradizione classica italiana e come ispirata piú che dall’immaginazione dall’«arido vero che dei vati è tomba». Ma la vera difesa dei bei miti classici il Monti la attuò indirettamente e con tanto maggiore fascino poetico nel poemetto Feroniade, che egli aveva incominciato in anni molto lontani (fino dal 1784), fra intenti descrittivi e l’intento di un’esaltazione dell’opera benefica di Pio VI, prosciugatore delle paludi pontine già miticamente abitate dalla ninfa Feronia amata da Giove, perseguitata da Giunone e finalmente divinizzata dal padre degli Dei. In questi tardi anni egli lo riprese e lo portò avanti con un gusto divenuto piú sobrio e delicatamente neoclassico, con un amore squisito per un’arte dotta e squisita che ben si addicono alla vicenda gentile e soavemente dolente della ninfa perseguitata dall’ira della possente Giunone, che devasta i territori posti sotto la sua protezione e la induce a vagare errabonda per la campagna laziale fino al rifugio ospitale in una povera capanna di pastori e alla consolante discesa di Giove al suo fianco mentre essa si è abbandonata, nella notte silenziosa, a un sonno ristoratore. In queste scene del II canto si può misurare la dolcezza lene e suadente del nuovo canto montiano, il suo incontro di eleganza e di familiarità, insaporito da accenti di sottile realismo (il tenue e monotono canto del grillo nella notte tacita), la suggestione di una scena sempre ben visibile (secondo la tendenza fondamentale del Monti), ma come avvolta in una luce piú pacata e impalpabile.

Con questo gentile poemetto la carriera poetica del Monti si conclude nei modi di un neoclassicismo misurato e persuasivo, mèta di un lunghissimo esercizio poetico cosí vario e difficilmente unificabile in un’unica formula, in uno sviluppo di profondi nuclei personali, ma anche certamente cosí ricco di offerte alla successiva letteratura ottocentesca e agli stessi romantici. Ai quali poi il Monti di quest’ultimo periodo poteva apparire moderno e rinnovatore per la battaglia linguistica sviluppata contro il pedantismo e il rigido purismo della Crusca e del padre Cesari nell’imponente opera in prosa Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (uscita in piú volumi nel 1817): battaglia di un vigoroso buon senso, animato da una vena polemica e satirico-comica di singolare vivacità e sorretto da una vastissima esperienza della lingua e della letteratura italiana, a favore di una lingua legata alla tradizione, ma aperta alle necessità della cultura moderna, e quindi non relegabile (come volevano i rigidi puristi) nell’angusto ambito della lingua trecentesca fiorentina che finiva per ridurre a quella sola zona cronologica e locale la grande tradizione linguistica italiana e per voler assurdamente privare i nuovi pensieri delle parole nuove ad essi necessarie.

E quell’opera linguistica è cosí una prova ulteriore del fatto indiscutibile che, se impossibile è riconoscere ancora al Monti la forza del vero e grande poeta (quale sarà il suo amico-nemico Foscolo), altrettanto errato sarebbe disconoscere l’importanza della sua presenza nel passaggio fra Settecento e Ottocento, la ricchezza delle sue disposizioni e offerte poetiche, l’interesse del suo intervento in campo linguistico e letterario, la sua mediazione alla cultura e alla letteratura del suo tempo e di tutto il primo Ottocento di tante tendenze del gusto, di tanti motivi del movimento della cultura e della letteratura, di tanti avvenimenti storici rispecchiati e rappresentati (anche se non profondamente interpretati) nella sua arte mobile e pronta ad esaltare e illustrare le vicende della storia tumultuosa, dall’antico regime alla rivoluzione, all’impero napoleonico e alla sua caduta.

8. Puristi e scrittori neoclassici

Nella sua posizione di aggancio alla tradizione, ma insieme di apertura verso una maggiore libertà dello scrittore, in un equilibrio che è la sostanza della sua complessa condizione storica, il Monti si opponeva ai piú rigidi puristi. Costoro auspicavano un totale ritorno alle forme linguistiche nel Trecento dell’uso letterario e una fedeltà assoluta ai testi antichi. Iniziatore del movimento puristico fu il padre filippino Antonio Cesari, veronese (1760-1828), il cui entusiasmo puristico si può ben rilevare in questa frase: «Tutti in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene. I libri delle ragioni de’ mercatanti, i mastri di dogane, gli stratti delle gabelle e d’ogni bottega menavano il medesimo oro». Guidato da questa convinzione egli attese ad una serie di commenti di testi (prima di tutto la Divina Commedia), che dovevano costituire i modelli del bello scrivere; erano modelli trecenteschi per ogni genere letterario, come dimostrò nella Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana. Ma soprattutto egli attese alla quarta edizione del Vocabolario della Crusca (1806-1811), che suscitò la reazione polemica del Monti sopra ricordata. Le posizioni puristiche si diffusero però un po’ dovunque in Italia, penetrando soprattutto nelle scuole: ne fu esponente vivace a Napoli Basilio Puoti (1782-1847), maestro del De Sanctis e non privo a suo modo di idealità risorgimentali, in Toscana il lucchese Luigi Fornaciari (1798-1858). Ma malgrado gli atteggiamenti di questi ultimi, piú moderati che non il Cesari, ben piú fertile resta la posizione montiana, che ebbe valido sostegno in Giulio Perticari di Savignano sul Rubicone (1791-1822), genero del Monti, che aiutò nella stesura della Proposta, inserendovi due saggi Degli scrittori del Trecento e dei loro imitatori (1818) e Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno il volgare eloquio (1820); da una parte egli impugnava le posizioni puristiche affermando che l’italiano è l’idioma che «appare dal secolo XIII sino al nostro e non riposa in nessuno», dall’altra proponeva Dante come modello di libertà dello scrittore, anche aprendo ulteriormente quella via del culto di Dante che l’Ottocento maturerà.

La figura del Perticari è anche al centro di un avvenimento che può apparire esemplare della fioritura del gusto neoclassico. Nel 1812, infatti, quando si sposò con la figlia del Monti, Costanza, il celebre tipografo Bodoni, creatore di caratteri tipografici che apparvero rinnovatori dell’arte e del gusto editoriale, apprestò una splendida raccolta di inni mitologici del Monti stesso e del Perticari, del Costa, dello Strocchi, dell’Arici. Delle condizioni culturali dell’età neoclassica quest’ultimo appare un esponente fedele; nato a Brescia nel 1782 e spentovisi nel 1836, fu professore d’eloquenza e segretario dell’Accademia bresciana; autore di poemi didascalici (La coltivazione degli ulivi, 1805; L’origine delle fonti, 1833), produsse anche degli Inni sacri (1828) non estranei ad un influsso del Manzoni, anche se ancora connessi alla leggerezza cantabile del ritmo arcadico e viceversa tendenti poi a forme solenni e paludate nella rappresentazione delle cerimonie liturgiche. Accanto all’Arici va ricordato Angelo Maria Ricci (1776-1850), anch’egli professore di eloquenza, autore di Poesie sacre, ma anche di una Georgica de’ fiori (1825) dove, attraverso un recupero dei classici del Cinquecento, denunciava un vivace sentimento della natura.

Ma lo scrittore piú tipico, e sotto certi aspetti piú esemplare, del gusto e degli ideali neoclassici di compostezza, di armonia, di misura anche, fu Pietro Giordani, nato a Piacenza nel 1774, per tre anni monaco benedettino, condizione che abbandonò per nausea dell’ambiente conventuale volgendosi ad un acceso anticlericalismo, dal 1808 al ’15 prosegretario dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, piú tardi col Monti e con l’Acerbi condirettore della «Biblioteca italiana», vicino all’ambiente dell’«Antologia» dopo il 1824 e morto a Parma nel 1848. Il Giordani, che ha il grande merito di aver capito per primo la grandezza umana e poetica del Leopardi, fu animato da alti ideali di libertà, di simpatia verso le classi povere, di sincero odio verso ogni superstizione, di rinnovamento culturale (rifiuto del vuoto bagaglio dell’umanesimo gesuitico e riconoscimento della validità della tradizione nel rapporto con la realtà presente). È significativa la sua battaglia contro l’uso persistente nelle scuole di scrivere latino: e nella sua storia umana non mancò l’esilio e la prigionia, per il suo carattere generoso e aperto e i suoi ideali risorgimentali. Quella di creare il modello della prosa italiana (fiducioso che l’arte ha un culmine, raggiunto il quale non resta che perseverare in esso) fu la sua piú alta aspirazione di scrittore del tutto fondato sul gusto neoclassico (secondo il suo ideale stilistico che «un perfetto stile dovrebbe avere geometria, pittura, musica»), come si vede nel Panegirico ad Antonio Canova, negli «elogi» numerosi e nella Prima psiche di P. Tenerani. Per raggiungere tale scopo volle imitare la lingua del Trecento (di qui la sua vicinanza alle posizioni dei puristi) e lo stile greco: ma gli effettivi risultati furono modesti, troppa eloquenza scorrendo spesso nelle sue pagine. Sicché i risultati migliori di lui si potranno trovare nelle piú disadorne, e viceversa pulitissime, lettere e nelle epigrafi, tra le quali notevole quella dettata per Giacomo Leopardi, mentre acute appaiono certe osservazioni critiche, come quella relativa alle Operette morali leopardiane nella cui prosa sentiva «l’augusto silenzio delle cave carraresi». Un posto di primo piano spetta poi al Giordani nella definizione dei principi dei classicisti nelle contingenze della battaglia classico-romantica, sulla quale torneremo al luogo opportuno.

Accanto al Giordani altra figura di squisito scrittore neoclassico è quella di Lorenzo Mascheroni, bergamasco (1750-1800), che nell’Invito a Lesbia Cidonia diede un modello esimio di neoclassicismo applicato ad una materia didascalica: in tale poemetto il Mascheroni descrive l’orto botanico dell’Università di Pavia (dove fu professore di matematica) con una grazia di movimenti, una sicura capacità nei trapassi da un motivo all’altro, una proprietà di linguaggio che rivelano un usufruimento preciso e garbato dell’insegnamento dell’ultimo Parini.

In una posizione appartata rispetto al gusto corrente dell’età neoclassica, ma con una singolare offerta di risultati nella direzione della mobilità, dell’estro, della bizzarria, si trova il toscano, nativo di Ronta nel Mugello, Filippo Pananti (1766-1837), che, pur dentro alle consuetudini di una tradizione retorica richiamantesi ai poeti burleschi ed eroicomici, seppe ottenere effetti piú personali prima nei poemetti sulla Civetta e sul Paretaio, poi nel poema in sestine Il poeta di teatro (1808). Quest’ultimo ha un andamento molto prosastico malgrado l’uso dei versi; narra le vicende del poeta, soprattutto i suoi viaggi e la vita quotidiana, coi suoi fastidi, le lotte, le difficoltà, del tempo trascorso a Londra come poeta stipendiato di quel Teatro italiano. L’abilità del Pananti sta soprattutto nel disegno rapido e saporito di figure di attori, di autori, di gente di teatro, bonariamente satireggiati, o meglio umoristicamente delineati, con un gusto che, salve le debite proporzioni, può richiamare uno scrittore inglese molto amato dal Foscolo, Laurence Sterne. Del resto, piú tardi (1817), di queste naturali doti di narrazione umoresca e vivace il Pananti diede prova nelle Avventure e osservazioni sulle coste di Barberia, dove vengono narrati i casi della sua prigionia presso i pirati.

9. Storici dell’età neoclassica.

I primi decenni dell’Ottocento videro un rigoglioso fiorire dell’attività storiografica: ma in questo campo occorre distinguere recisamente quegli scrittori che svolgono le loro attività di storiografi nell’ambito di un netto gusto neoclassico, in cui non tanto il processo storico e la comprensione ideologica di esso importa, quanto la compostezza, la dimensione classica della scrittura e dell’organizzazione espositiva, e coloro che invece si rivolgono alla storiografia proprio per sollecitazioni ideologiche e culturali. Tra i primi la figura piú nota è Carlo Botta, piemontese (1766-1837), membro del corpo legislativo dopo l’annessione del Piemonte all’impero francese, autore di opere d’assieme assai vaste, come la Storia naturale e medica dell’isola di Corfú (1798), la Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), la Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824) e infine la Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini fino al 1789 (1832). Come si può vedere nella prima di queste opere, non mancano in lui residui di cultura settecentesca, illuministici e scientifici; ma in seguito egli viene svolgendosi verso un gusto tutto esteriore dei moduli classici e la sua storiografia svela le dimensioni esclusivamente letterarie appoggiate a una pesante gonfiezza stilistica, ad un goffo gusto per l’arcaismo da opporre, secondo lui, alla diffusione dei francesismi.

La seconda linea della storiografia primo-ottocentesca si svolge a Napoli e porta dentro di sé il nutrimento profondo del pensiero vichiano, oltre che quello dell’illuminismo napoletano da Genovesi a Galiani, a Filangieri. In essa primeggia la figura di Vincenzo Cuoco, storico e filosofo, nato a Civitacampomarano nel Molise nel 1770. A Napoli studiò e risiedette fin dal 1787 e a Napoli visse le fervide giornate della rivoluzione e della Repubblica partenopea del 1799. Quando i Borboni prevalsero con l’appoggio delle armi austro-russo-turche, andò in esilio, prima in Francia e poi a Milano, dove molto contribuí a diffondere i germi fecondi del pensiero vichiano, influenzando uomini come il Foscolo e il giovane Manzoni. A Milano, nel 1801, pubblicò il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana. Nel 1806, quando divenne re di Napoli Giuseppe Bonaparte e poi con Gioacchino Murat, ebbe incarichi di rilievo (consigliere di Cassazione e direttore del Tesoro): a questi anni risale il suo importante Rapporto al re G. Murat. In seguito ebbe vita travagliata da malattia mentale: morí a Napoli nel 1823. Il suo romanzo filosofico-pedagogico Platone in Italia (1804-1806) può ben mostrare come su una base illuministica s’intrecci nel suo pensiero una forte corrente vichiana; ma il suo capolavoro resta il Saggio storico, prima di tutto per la coerenza del pensiero che vi esprime, sia nella ricostruzione dei fatti che condussero alla rivoluzione partenopea, sia delle ragioni che ne produssero il fallimento. Queste ultime non vanno cercate, secondo lui, nella mancanza di generosi sostenitori e di eroi, ché anzi egli decisamente e plutarchianamente esalta i tanti eroismi, le tante nobili figure di quella rivoluzione, ma nell’astrattezza dei propositi, nell’incapacità a far rispondere le azioni alla contingenza storica del regno napoletano, alla coscienza politica delle classi piú mature, all’arretratezza delle popolazioni, alla disonestà di troppi mestatori. Questa forza ideologica, che lo portò poi a favorire un paternalistico rinnovamento dei costumi, della mentalità, dei modi di vita della società, si manifesta in una prosa energica, vivace, nervosa spesso, non restia a vestire di forme solenni ed eloquenti certi momenti di maggior esaltazione, ma anche capace di precisi rilievi drammatici, di sottolineature vigorose di azioni decisive, di rotture, di svolte storiche, ora commossa dinanzi all’eroismo sfortunato, ora violentemente accusatoria nell’indicare la ferocia, la crudeltà, la disonestà.

Accanto al Cuoco va ricordata un’altra figura di esule napoletano del ’99, Francesco Lomonaco, anch’egli non senza influenze sul mondo milanese e in particolare amico del Foscolo, autore di una generosa protesta contro i Borboni nel Rapporto al cittadino Carnot. Insigne storico napoletano fu poi Pietro Colletta, nato nel 1775, ufficiale dell’esercito borbonico, poi di quello murattiano nel quale raggiunse alti gradi, che conservò dopo la Restaurazione. Ma nel 1820 prese parte ai moti carbonari e, falliti questi, fu confinato in Moravia; nel ’23 ottenne di stabilirsi a Firenze e qui, vicino all’ambiente dell’«Antologia» del Vieusseux, attese alla composizione della Storia del reame di Napoli, che apparve solo nel 1834, dopo la sua morte, avvenuta nel ’31. Come storico, senza possedere le qualità di analisi del Cuoco, egli indulse a forme puramente letterarie: e, pur seguendo esempi classici, in particolare facendosi un idolo dello stile tacitiano, scrisse con bella proprietà, disegnando fermamente caratteri e sentimenti dei personaggi, che spesso nelle sue pagine spiccano sugli avvenimenti e li assorbono in sé, dominando infine uno slancio oratorio ed eloquente che resta una dimensione tipica della sua scrittura. Su questa linea napoletana s’incontra poi anche Carlo Troya (1784-1858), che ad una volontà di fedeltà alla misura classica associa un gusto già intinto di romanticismo, come si vede nel Volto allegorico di Dante e nella Storia d’Italia nel Medioevo (1839-1855).

Una posizione intermedia tra il gonfio classicismo del Botta e l’ideologismo secco e conseguente del Cuoco tenne il lucchese Lazzaro Papi (1763-1834), che tra il ’30 e il ’36 redasse i lunghi Commentari della rivoluzione francese, opera di grandissima fedeltà cronachistica, non sostenuta però da un senso critico adeguato. Andrà rammentato che alla letteratura il Papi s’era convertito per narrare nelle Lettere sulle Indie orientali le sue avventure in quelle lontane terre dove era stato capitano delle guardie del maharagià di Travancore e poi colonnello nella guerra contro un altro maharagià.

Né andrà dimenticata infine l’attività svolta in questo tempo nel campo piú ristretto della storiografia letteraria: di Francesco Saverio Salfi, cosentino (1759-1832), è il vasto Manuale di storia della letteratura italiana; di Francesco Torti, umbro (1763-1842), la storia letteraria che porta il titolo di Parnaso italiano; ambedue testimonianze e documenti larghissimi del passaggio della mentalità e del gusto dall’età illuministica al neoclassicismo. Anche in altri campi la produzione culturale di questa età non manca di efficaci rappresentanti: nel campo filosofico si ricorderà Melchiorre Gioia, fra i giuristi, e i filosofi ancora, Giandomenico Romagnosi, nel campo scientifico Alessandro Volta; in tutti costoro il fondo illuministico si protende verso gli elementi affioranti della civiltà romantica.